Ha ben ragione Filanci a mettere in testa al suo nuovo libro un lapidario giudizio, “Parma è una città che potremmo definire postale per nascita”, imbastendo su tale assunto un testo dentro il quale si colgono varie chiavi di lettura storiografiche nuove, alcune più evidenti benché forse inattese — come la presenza forte del francobollo — ed altre più sfumate (perché misteriose) ma comunque meritevoli di attenzione.
Diciamo subito, a scanso di equivoci, che questo saggio su Parma ha innanzitutto un valore paradigmatico. Non è uno dei tanti libri che storici locali dedicano ad aspetti delle rispettive città, quanto il tentativo riuscito di percorrere la grande storia utilizzando un tipo di fonte spesso sottovalutata: le lettere (qui intese nella loro originaria materialità, non solo come testi) e altri oggetti legati alla funzione postale.
Questi reperti sono oggetto di un diffuso interesse collezionistico e antiquariale, ma solo negli ultimi anni su di essi va facendo un po’ di luce la cultura ufficiale.
I vecchi fogli ingialliti, a volte dimenticati in soffitta, tramandano cose molto attuali per noi, abitanti di una società che giudica la comunicazione uno dei grandi motori del mondo.
La storia che il libro ci invita a praticare è proprio quella comunicazionale, caratterizzata da uomini e donne (ma anche bambini) che pur vivendo in una località avevano, occhi, orecchie e cuore posizionati altrove.
Per secoli la posta ha costituito un fattore fondamentale di integrazione e di omogeneizzazione, concorrendo a formare un humus sociale e psicologico già molto prima che apparissero il telegrafo e le ferrovie, vale a dire le condizioni che la storia dei media giudica indispensabili alla società contemporanea.
Proprio nel criterio della lunga durata sta uno dei punti di forza della storia postale che rivendica comunque la propria autonomia rispetto alla storia dei media.
Certo la voce della posta (priva di status scientifico) è ancora flebile, mentre la seconda (con corsi di laurea attivi in tutto il mondo) conta un esercito di professionisti della ricerca molto bravi a farsi sentire.
È interessante ricordare che la storia postale o Postgeschichte nacque in Germania nella seconda metà del XIX secolo, di supporto (dal versante colto) alla politica di modernizzazione incentrata sulle grandi amministrazioni postali nazionali in regime di monopolio. La materia toccò l’apice a cavallo del 1900 ma non seppe conquistarsi uno status accademico. Finì più modestamente come palestra per dotti funzionari postali in quiescenza. Scemò l’interesse, e di storia postale si ricomincerà a parlare solo negli anni ‘30 del XX secolo tra i filatelisti, attirati dagli usi postali del francobollo, dai timbri, dalle cosiddette lettere prefilateliche, ovvero spedite prima dell’introduzione del francobollo. Negli ultimi vent’anni questo settore ha goduto e gode di un boom internazionale, sostenuto da un crescente interesse antiquariale che guarda all’oggetto-lettera in un arco temporale completo, dal medioevo fino a oggi.
La storia postale rimane comunque una disciplina in divenire, decisamente amatoriale, consapevole però che l’approccio giusto resta quello interdisciplinare perché diverse sono le anime che convivono sotto questo tetto.
Al nostro sapere contribuiscono infatti significativamente la storia della letteratura (tramite l’epistolografia), la geografia storica (dal tema delle “strade postali” a quello delle reti), la filosofia (dalla secentesca Repubblica delle Lettere fino al “principio postale” di Jacques Derrida), l’iconografia (con i francobolli e i loro simboli che tanto affascinarono Aby Warburg, padre della moderna iconologia), la storia sociale (con il tema delle formule di indirizzo e i riti laici dei “giorni di posta”), la storia del giornalismo (nell’innovativa lezione di Mario Infelise con il suo Prima dei giornali, alle origini della pubblica informazione), la storia economica (spaziando dalla lezione ‘filatelica’ di Marc Bloch al problema dei costi e delle tariffe postali), la teoria del collezionismo (con gli scritti di Walter Benjamin sulla filatelia), senza contare i Cultural Studies, nell’arcobaleno di suggestioni che va da Stefania Alpers a David Scott.
E non è neppure l’elenco completo delle materie del nostro corso di storia postale visto che ve ne sono diverse altre, ma siccome questa è una presentazione e non un trattato ci tocca tagliare.
Per dirla con una formula telegrafica, chi legge questo saggio vi troverà condensata la lezione della scuola italiana di storia postale, quella che a cavallo del XXI secolo si attesta proprio intorno all’Accademia Italiana di Filatelia e Storia Postale.
Rimandando al prossimo sito www.storie di posta.it per maggiori particolari, qui si può solo accennare ad alcuni tratti specifici di questa ‘scuola’, saltando qua e là.
Ad esempio al principio della superiorità dei documenti rispetto alle interpretazioni (anche se questo non è altro che il metodo storico), soprattutto in considerazione di certi recenti credo filatelici volti a dare un crisma di interesse (soprattutto commerciale) a materiale che di interessante e di ufficiale ha ben poco se non nulla.
Poi all’idea che l’immagine del francobollo si colloca al centro del sapere storico postale, vincendo l’ostracismo del collezionismo internazionale targato Fip nei confronti del francobollo nuovo. Non a caso l’Accademia ha tradotto sulla sua rivista Storie di posta diversi saggi di David Scott, professore di umanistica al Trinity College di Dublino e maestro del metodo di approccio semiotico alle immagini filateliche.
Altro tratto caratteristico del nostro modo di sentire (in contrasto col vezzo filatelico di confondere le “lettere” con le “buste”) è quello di valorizzare ogni elemento grazie al quale un semplice pezzo di carta, storicamente, s’è trasformato in lettera, cioè in oggetto ‘altro’ e molto più potente. Occorre cioè non guardare soltanto al francobollo o al timbro postale ma leggere l’indirizzo, controllare il modo in cui il messaggio è stato fatto, le indicazioni relative al viaggio e al giro di posta contenute nel testo. E di quest’ultimo va studiata la scrittura, l’impaginazione, e ogni altro elemento utile, imparando anche a mostrare le nostre lettere in modi nuovi — più completi — come sono ad esempio quelli esemplificati qui a pagina 24.
Chiaramente questo saggio costituisce per l’autore ancora una volta una sfida: a cominciare dall’abbandono dei consueti schemi filatelici di simili pubblicazioni. L’idea tradizionale di intendere storia postale come sinonimo di collezione (o elenco) dei timbri di una data località, dopo Storia di Parma per Posta resta annichilita. Memore forse di Giulio Guderzo che anni fa a Bologna, al termine di una conferenza storico postale con tanto di diapositive, si rivolse un po’ stizzito al relatore con un “Ma la storia postale non è fatta solo di bollature!”. E infatti i bolli non sono che uno dei tanti elementi postali trattati, tutti scelti — al pari delle illustrazioni — in modo da fornire non soltanto dei dati ma anche informazioni interessanti persino al di fuori della ristretta cerchia collezionistica. Magari attraverso pezzi di scarso valore commerciale ma storicamente e postalmente più significativi di tante rarità. In omaggio a un nostro comune amico la cui massima soddisfazione è mostrare pezzi della sua raccolta agli amici e persino alla sua ragazza ottenendone attenzione e interesse invece dei soliti sbadigli.
Anche per questo Franco Filanci resta il punto di riferimento per una schiera di appassionati che non hanno tempo (o voglia) di mettersi a competere coi ricercatori professionisti. La formula di questo libro appare bella e possibile. Confrontandola con quella di una pubblicazione altrettanto emblematica, la Storia postale di Palermo pubblicata sull’Isola nel 1985, possiamo ben dire che vent’anni non sono passati invano.
Chi legge questo saggio avrà modo di rispondere personalmente alle tante garbate sollecitazioni sparse un po’ ovunque.
Il coinvolgimento personale (così come l’invito ad approfondire la storia postale parmense negli archivi e sulle tante lettere conservate) ci sembra un valore da condividere. Altrettanto colpisce lo scoprire tanti dati e pezzi finora inediti, a cominciare dai bozzetti preparatori per la prima emissione di francobolli parmensi, opera del più apprezzato Artista del ducato, costretto a cimentarsi in una novità postale quasi assoluta.
Ma in proposito non si può non palesare l’emozione per la riscoperta nell’Archivio di Stato di Reggio Emilia delle lettere del 1385 di Giangaleazzo Visconti (lettere segnalate dal Sassi già oltre un secolo fa) con le indicazioni relative all’avviamento tramite i cavallari ducali dislocati alle poste. Sulle soprascritte di queste antiche missive — lato indirizzo — si leggono diciture in latino tipo Portetur velociter per cavallarios Parme per postas(ovvero “sia portata in fretta dai cavallari di Parma per posta”) ed esse costituiscono la prima data certa sulla magica parola “poste” che nei secoli seguenti sarà destinata a connotare in tutto il mondo il modello delle comunicazioni pubbliche statali. Un modello che quindi è di origine lombarda, e italiana.
Un tema di portata enorme, finora lasciato in angolo ma che Filanci rilancia. Fu la velocità sviluppata dalla rete dei cavallari alle poste — tecnicamente superiore — ad incrinare la supremazia medievale delle scarselle contenenti lettere mercantili, trasportate da messi che correvano a piedi. La storia postale deve dunque riscoprire le sue radici padane lasciando per un po’ da parte la pista toscana.
E si tratta di temi che possono essere di grande attualità. Ora che il successo di novità editoriali e cinematografiche mostra un rinnovato interesse del largo pubblico per la Storia, ma c’è chi come Ivo Mattozzi dell’Università di Bologna lamenta la latitanza, soprattutto presso i giovani, dello sfondo su cui proiettare i personaggi e gli avvenimenti della storia — “raccontando come era organizzato il potere, il territorio, com’erano l’arte, le case, gli stili, la vita quotidiana. Se non sai che armi usavano nella guerra di Crimea puoi pensare che sia uguale a quella del Golfo” — ebbene, proprio ora la storia postale, quella vera fatta non solo di bolli e francobolli e di pezzi da inserire in un album, può fornire mille forse piccoli ma importanti tasselli per ricreare questo sfondo di quotidianità antica e anche più recente.
Scherzosamente — e “divotamente” — sarebbe stato carino concludere con parole di commiato tratte dal formulario postale barocco, ma cosa di meglio che ripescare dalla chiusa della lettera riprodotta a pagina 24 la misteriosa formula trilettere in voga fra i mercanti italiani, uomini intelligenti che badavano al sodo (pardon, al soldo)?
B.L.M.
Clemente Fedele