La decisione del TAR del Lazio avversa al ricorso della Globe Postal Service contro la comunicazione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che inibiva l’uso dei termini francobollo, stamp e affrancatura nel materiale informativo di questa posta privata nei confronti dei suoi clienti, è stata riportata dalla stampa e dal mondo filatelico come l’affermazione di un copyright su questi termini da parte di Poste Italiane o dello Stato italiano. Il che non è, e non può essere.
La legge vieta infatti di registrare, depositare o comunque brevettare vocaboli di uso comune, presenti come tali nei dizionari: arriveremmo a degli assurdi se qualcuno potesse brevettare termini come Bibbia, mela o mutande pretendendo royalties da parte di chi ne fa uso. Nel caso di nomi di prodotti, titoli di film e simili l’unica registrazione possibile è quella di parole nuove o scritte in modo diverso e di locuzioni fino a quel momento inedite (è il caso del Mulino Bianco).
Nel caso di francobollo, stamp (che senza postage ha un significato molto esteso) e affrancatura la decisione del TAR del Lazio serviva essenzialmente a evitare quella che poteva – agli occhi di Poste Italiane e dello Stato – considerarsi concorrenza sleale o infrazione al diritto esclusivo di produrre francobolli sancito dalla Legge postale (che tra l’altro non so neppure bene che fine abbia fatto e che senso abbia dopo la trasformazione dell’Amministrazione postale in Società per azioni).
E già qui ci sarebbe da ridire visto che una simile “concorrenza”, e i deprecati conseguenti effetti di posta affrancata con questi valori immessa per errore nelle buche di Poste Italiane, poteva essere con più semplice buon senso evitata, disponendo semplicemente che i francobolli privati rechino in bella evidenza non il termine ITALIA ma il nome della Posta privata che li emette, e magari al retro una dicitura di avviso agli utenti, tipo quella recitata a velocità da Indianapolis nelle pubblicità televisive dei prodotti farmaceutici.
Purtroppo in Italia si è tutti ancora fermi alla mentalità otto-novecentesca del monopolio postale dello Stato, giustificato dal servizio pubblico ma spesso motivato da ragioni di controllo sulla vita pubblica. In molti paesi questo tipo di privativa non è mai esistito o era circoscritto, e anche aziende private hanno potuto operare nel settore, emettendo all’occorrenza propri francobolli, che nessuno si è mai sognato – in quei paesi – di definire altrimenti. Un classico esempio lo abbiamo avuto anche noi: è il Granducato di Toscana, dove le Strade Ferrate operavano un proprio servizio postale molto apprezzato dal pubblico anche se limitato alle località poste lungo le linee ferroviarie. Servizio che si protrasse anche per i primi due anni del regno d’Italia.
E quando questi operatori privati, compresi quelli debitamente autorizzati dallo Stato in momenti eccezionali, hanno posto in uso dei propri francobolli, è assurdo definirli con altri termini come fanno alcuni: magari gli stessi che poi definiscono francobolli le marche di recapito autorizzato, che sono puramente fiscali.
Stando ai dizionari, il francobollo è un oggetto che, applicato a una corrispondenza, serve a dimostrare l’avvenuto pagamento dell’importo previsto per il trasporto e l’eventuale recapito di quella corrispondenza. E se la Coralit nel 1945 ha posto in uso degli speciali ministampati per dimostrare l’avvenuto pagamento dell’importo previsto per il trasporto di corrispondenze da parte dei suoi ciclisti, questi non possono che definirsi francobolli.
Semmai ci sarebbe da chiedersi se sono ancora francobolli quelli che ora vengono ufficialmente emessi, soprattutto in Italia.
Un po’ a causa dei nuovi mezzi di comunicazione che riducono la necessità di trasmettere reali oggetti cartacei (lettere, cartoline, riviste ecc.) e un po’ a causa dell’operatore postale che, in base alle leggi di mercato, tende a ridurre o eliminare i costi dovuti all’affrancatura, alla bollatura e ai controlli di tali oggetti, il francobollo sta perdendo gran parte della sua primaria necessità postale: basta confrontare tirature e vendite dei commemorativi degli anni Cinquanta, normalmente dai 4 ai 15 milioni di esemplari, con quelle attuali, 400mila, per averne la miglior evidenza.
Tranquilli, il francobollo non sparirà, ma la sua unica motivazione sarà di soddisfare coloro che non hanno voglia o tempo di recarsi in posta per spedire i loro messaggi cartacei – documenti, pubblicazioni o altro – e li vogliono poter “gettare in buca” come si fa da almeno due secoli.
Resta anche, ovviamente, l’aspetto collezionistico del francobollo, con la sua lunga e ormai radicata tradizione, anche commerciale. Che non ha nessuna intenzione di abbandonare.
Ma da noi, a fronte di queste due prospettive, si è fermi a situazioni anacronistiche, che l’evolversi della realtà istituzionale e di mercato ha portato ai limiti del grottesco. Quale altra azienda italiana /se non Poste)è costretta a distribuire sul mercato col proprio nome e a utilizzare per il suo servizio un prodotto fatto preparere da altri senza potervi intervenire? E perché il francobollo, specie se commemorativo e quindi anche con finalità culturali e di immagine, viene deciso e realizzato da un ministero come quello dello Sviluppo economico, che con la cultura c’entra quanto il due di picche? Per di più affidandone la realizzazione in esclusiva a una SpA qual è ufficialmente il Poligrafico – e come tale una Società privata – in contrasto quindi con la normativa europea sulla libera concorrenza e contro i monopoli?
Sono queste le domande per cui dovrebbe esigere risposte il mondo della filatelia, giustamente preoccupato per l’andazzo preso negli ultimi anni dalla burocrazia romana nell’emissione di nuovi francobolli, che costituisce uno dei filoni principali della passione collezionistica. E invece resta fermo alle proteste, alle recriminazioni, alla ricerca di appoggi politici, e nel frattempo si lascia incantare dal fogliotto con Mickey Mouse pensando che sia un’apertura ai giovani mentre non è che un gattopardesco tentativo di imitazione di certe peraltro criticate iniziative mercantili di altri paesi, prova generale di un nuovo sciame di celebrazioni dentellate, dedicate a personaggi di comics e kolossal di cui la Marvel potrà essere un grande sponsor, come la Disney, dividendo gli introiti.
Tra l’altro da un punto di vista storico postale (inteso sia storicamente che collezionisticamente) tutto questo dovrebbe risultare molto stimolante, prestandosi a studi e collezioni di appassionante attualità, sull’evolversi del francobollo e del suo utilizzo effettivo, così come del sistema postale in generale. E invece nulla, o quasi nulla. Non esiste neppure un catalogo dei francobolli privati apparsi negli ultimi decenni: da non credere!
Nessuno ha nemmeno lontanamente ipotizzato – dopo l’allarme di alcuni anni fa su una possibile invasione – che proprio questi nuovi francobolli potrebbero, magari presentando qualche inedita caratteristica o applicazione, catturare davvero l’interesse dei giovani. E a favorire la cosa potrebbe persino tornar utile l’imposizione di non chiamarsi francobolli. Il gioco dei nomi nuovi per cose giudicate vecchie pare che funzioni, come dimostra il chinotto aggiornato in Chinò. Chissà che il francobollo, rilanciato da GPS o qualcun altro come sticker e magari utilizzabile anche in ulteriori e più moderne applicazioni, tipo elettroniche, non prenda piede fra i giovanissimi (e poi i meno giovani, come è ormai abituale) persino più di prima. Alla faccia di chi vorrebbe tenerlo imprigionato in un passato ormai passato!
Franco Filanci (da Storie di Posta, Volume sedicesimo, novembre 2017)